Il tema della prescrizione torna alla ribalta periodicamente in un paese dove si vivono emotivamente le vicende giudiziarie e sociali; dove si legifera in “costante emergenza” e senza mai individuare la terapia adeguata a curare il “male” al quale sono destinate cure palliative.
La prescrizione è un istituto che garantisce la ragionevole durata del processo, e non va “trattata” come momento patologico, associandola a comportamenti dilatori all'interno del processo.
La politica giudiziaria ignora la necessità di adeguare il numero del personale impiegato (magistrati e cancellieri) all’effettiva domanda di giustizia. Così rimangono non colmate gravi carenze organizzative inadeguate a “dare risposte di giustizia” rispetto ad un elevato numero di fattispecie di reato (panpenalismo) e ad un anacronistico principio di obbligatorietà dell’azione penale.
A ciò si aggiunge l’ormai certificato fallimento dei riti alternativi con (originaria) funzione deflattiva del dibattimento.
Tanto premesso il Direttivo della Camera Penale di Trapani osserva:
il processo deve dunque avere una durata ragionevole.
Questa regola, scritta nella Costituzione, tende ad assicurare (almeno) tre esigenze:
• quella della società di vedere definito in tempi rapidi l'accertamento di responsabilità;
• quella del cittadino di non rimanere imputato per un tempo indefinito;
• quella di pacificazione sociale: se colpevole, il condannato andrà rieducato e reinserito in società, cosa che non avrebbe senso fare dopo tanti anni col rischio di intervenire su una persona diversa. Si immagini, per esempio, un diciottenne che commette un reato: che senso avrebbe processarlo, condannarlo e magari carcerarlo, all'età di trentacinque anni, quando ormai lavora onestamente, ha messo su famiglia ed è, nei fatti, un altro uomo?
È per questo che esiste la prescrizione. È emenda del tempo: dopo un certo periodo, se non hai commesso altri reati, lo Stato rinuncia a punirti.
Eppoi, che senso avrebbe celebrare processi destinati a "morire", con inutili costi a carico del contribuente? Meglio sarebbe fare una selezione, ed eliminare o ripensare il principio di obbligatorietà dell'azione penale. È quel che già avviene in alcune Procure per effetto di circolari scritte e, talvolta, mediante prassi consuetudinarie.
Noi riteniamo più democratico e imparziale un metodo diverso. Un metodo che affidi alla responsabilità del legislatore – rappresentante del popolo sovrano -, attraverso lo strumento generale ed astratto della legge, la competenza a disciplinare i casi e le “selezioni” dell'azione penale su basi nazionali.
Siamo consapevoli dell'obiezione che, sovente, viene opposta: se una Procura scopre oggi un reato commesso cinque anni fa, magari una corruzione, perché il tempo non deve decorrere dalla scoperta del reato?
Riteniamo però che l'obiezione sia suggestiva e vada corretta.
Occorrerebbe, infatti, creare meccanismi di bilanciamento per evitare il rischio che, a distanza di anni, siano disperse le prove a discolpa.
Sarebbe necessario, dunque, che i tempi e i modi delle iscrizioni delle notizie di reato fossero accertabili, verificabili e sanzionabili processualmente in caso di violazione. Oggi tutto ciò non accade!
È incontestabile che la pena, soprattutto se interviene a distanza di anni, deve modularsi sulle accertate e modificate condizioni (anche di vita) del condannato. In alcuni sistemi giuridici la regola prende il nome di sistema bifasico della sorveglianza. Nel nostro sistema non è così!
Diversamente, senza i correttivi accennati, si correrebbe il rischio di lasciare nel limbo della condizione di imputato il cittadino e gli si negherebbe la possibilità di ottenere, in tempi ragionevoli, una sentenza definitiva che risolva la sua vicenda processuale e lo riabiliti nel consesso civile.
Sarebbe come se, operato, quel cittadino venisse lasciato in sala operatoria per un tempo indefinito, mezzo cadavere e abbandonato a sé stesso.
Oppure sarebbe come se uno studente venisse lasciato in attesa del risultato dell'esame di maturità fino al compimento dei quarant'anni di età.
Vi pare che questa sia la condizione di civiltà di uno Stato che pretende il 70% dei ricavi di quel cittadino per amministrare scuole, ospedali e giustizia?
Il Direttivo