Considerate il giudicato come se fosse la verità.
Ma se lo considerate come se fosse, non è la verità.
Cosa c’entra la difesa dell’appello con l’ennesimo caso che mette in luce l’anomalia dell’ordinamento giudiziario italiano (magistrati dell’accusa e del giudizio che partecipano carriere, sindacato, organo di promozione e disciplinari)?
All’apparenza non c’entra nulla, a meno che non si voglia andare al fondo e comprendere. Chi non ne ha voglia si fermi qui.
Come tutti intuiscono, i criteri in base ai quali un fascicolo è assegnato a un giudice (nota per gli stolti: giudice, non pubblico ministero, che è cosa diversa) sono oggettivi e predeterminati. Se ciascuno potesse scegliere in base al proprio gradimento la donna o l’uomo che deciderà della sua libertà personale sarebbe alterata l’aspirazione di imparzialità che l’ordinamento giuridico deve assicurare. È il principio del giudice naturale precostituito per legge, previsto dalla Costituzione e attuato secondo criteri predefiniti in ogni ufficio giudiziario: le così dette tabelle o criteri tabellari.
Quali che siano in ciascun ufficio, questi criteri consentono di distribuire gli affari senza tener conto dell’importanza del caso, della sua mediaticità, della rilevanza pubblica degli imputati ecc. Potremmo dire, semplificando, che è l’applicazione del principio “uno vale uno”, sebbene esistano metodi di compensazione “ponderale”, utilizzati in Cassazione ad esempio, con lo scopo di “pesare” il livello di difficoltà di ciascun affare (ciascuno comprende ad esempio che un processo come quello della funivia del Mottarone “vale”, per impegno, almeno dieci processi per colpa medica).
Chiarito quindi che su basi oggettive e predeterminate un fascicolo arriva sulla scrivania di un giudice, e che quel giudice non può essere sostituito se non per evenienze eccezionali (maternità, trasferimento ecc.), cerchiamo di spiegare qual è il nesso con il giudizio di appello.
Ci vuol poco a comprendere come l’esito di un processo oltre che dal diritto, dalla bravura o meno di chi accusa e di chi difende, dipenda dalla persona del giudice che decide.
È l’adagio che molti conoscono: “un bravo avvocato conosce la legge, un ottimo avvocato conosce il giudice”.
La regola nella pratica quotidiana orienta le strategie. Ad esempio: ci sono GIP con i quali si può chiedere il giudizio abbreviato, altri con i quali la scelta è “preclusa”.
In somma: al di là delle “carte”, l’esito di un processo dipende dagli esseri umani che se ne occupano e dall’essere umano che lo decide.
Per questa ragione, nei millenni, i sistemi processuali si sono evoluti per progressione di questioni risolte e questioni da risolvere nel merito (appello) e in diritto (cassazione). I Romani diffidavano finanche del “giudicato” (res iudicata pro veritate habetur) e infatti i sistemi giudiziari prevedono l’istituto della revisione nella consapevolezza che neppure il giudicato è certo (si pro veritate habetur non est veritas).
Il broccardo consente di far luce su un altro fraintendimento: il processo non serve ad accertare la “verità”, ma a stabilire quale tra le due tesi a confronto (accusa e difesa) sia più credibile, salva la successiva verifica nel merito (appello) e in diritto (cassazione).
La “verità” rimane categoria divina, esclusa dalla fallibilità dell’essere umano.
Se così è, si comprendono allora molte cose.
In primo luogo, si comprende come sia anomalo affidare la scelta della tesi più attendibile a un essere umano la cui carriera dipende dal medesimo ordine al quale appartiene l’essere umano che accusa.
Si comprende poi come sia sommamente ingiusto precludere, limitare, ostacolare la verifica del primo accertamento e impedire l’accesso a una seconda verifica di merito da affidare a tre giudici anziché a uno, come si vorrebbe fare.
Tutto questo non ha nulla a che vedere con la stupidaggine propinata circa la durata del processo.
Ha a che vedere con l’essenza del diritto penale: chi è accusato dallo Stato è un presunto innocente e compete a chi lo accusa dimostrare il contrario. Competenza che richiede regole di imparzialità effettiva ma anche apparente (justice must not only be done; it must also be seen to be done), controlli a verifica della fallibilità umana; struggimenti dell’animo e notti insonni.
Nulla che sia paragonabile allo spettacolo indecoroso al quale siamo quotidianamente costretti ad assistere con i processi di piazza in tv e sui giornali, con le lotte di potere per il carrierismo, con le beghe segrete per “fottere” questo o quell'imputato.
Questo, al fondo, è il patto sociale.
Chiamatelo garantismo, se volete. Ma risparmiateci la grancassa della speculazione politica e delle finte riforme, utili solo a sottrarre aria ai cittadini processati da altri cittadini. Il bene che è in gioco, la libertà, appartiene anche alle vittime del reato. Appartiene a tutti noi.
Trapani, 8 giugno 2021
Il Direttivo
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